La scintilla della rivoluzione scientifica è svelata al Museo Galileo, allora Istituto di Storia delle Scienze di Firenze, giunto a un secolo di vita. Roberto Ferrari dal 2021 ne è il direttore esecutivo. Ha ricoperto la carica di direttore della Direzione “Cultura e ricerca” della Regione Toscana ed ha una lunga e brillante esperienza in management e consulenza in ambito culturale. Il suo modello di lavoro non sono i manager di impresa, ma intellettuali e amministratori che incidono sulla vita di istituzioni culturali con idee ambiziose.
Direttore Ferrari, qual è l’esperienza professionale che ha lasciato l’impronta più profonda nella sua carriera?
Senza dubbio l’esperienza di direttore per la Regione Toscana. Il salvataggio degli archivi Alinari è stata inoltre una delle iniziative più complesse sul piano tecnico, che mi ha tolto il sonno per settimane, soprattutto quando la trattativa si faceva più dura (ricordo che la Regione ha acquisito oltre al patrimonio, anche la stamperia d’arte, la biblioteca e i domini web per proseguire la gestione dei contratti attivi), e il tempo stringeva.
Il museo Galileo vanta una vasta collezione storica e strumenti scientifici originali. È in atto un collegamento museale attivo con il mondo della scienza nelle scoperte contemporanee?
Gli strumenti originali sono circa 5.000. Non siamo uno science center, ma un museo storico, in cui spiccano capolavori di arte e scienza che ci inducono a cautele maggiori di chi opera con pochi originali, molti exhibit interattivi e tanti effetti speciali. Il nostro sforzo è far comprendere quanto le attese, le paure, le speranze e le sfide intellettuali del presente abbiano radici antiche, che la storia della scienza può illuminare. Lavoriamo molto con istituti di ricerca, università e studiosi che ci aiutano a chiarire questi legami tra passato e futuro del pensiero scientifico.
Il progetto più significativo in programma al museo di storia della scienza?
Sul piano dei progetti conoscenza la LeonardoThek@ è certamente uno dei più ambiziosi: nessuno aveva mai tentato prima la costruzione di un ambiente di ricerca dedicato ai manoscritti e disegni di Leonardo Da Vinci di tale profondità. È una sfida intellettuale e tecnica di cui a livello internazionale c’è crescente consapevolezza e i risultati raggiunti sono incoraggianti. Sul piano dello sviluppo dell’istituto, il progetto GalileoLab che vedrà la luce nel complesso di Santa Maria Novella alla fine dell’anno prossimo è il più ambizioso: un luogo dove i cittadini e i turisti potranno interagire in forme innovative con protagonisti, idee, libri e strumenti della storia della scienza. In quel luogo faremo valere le molte collaborazioni che nel corso di molti decenni il nostro istituto ha stabilito.

Nel suo lavoro si ispira ad un modello di direzione degli spazi culturali in particolare?
Gli studi organizzativi ed economici in ambito culturale – è necessario ammetterlo – hanno tradito le aspettative. Trenta anni fa pareva delinearsi una nuova disciplina, che invece stenta ad emergere. I manuali, i convegni e le riviste di settore sono di una povertà intellettuale deprimente, avvitati attorno ai soliti quattro vuoti cliché retorici (l’autonomia, le imprese culturali, l’impatto, la partecipazione). A questi si saldano ricette calate in modo scriteriato dal management (l’accountability, il ciclo di progetto, i business model canvas…) senza alcuna consapevolezza delle specificità non del settore ma delle singole istituzioni. Il mio modello non sono certo i manager di impresa, perché dove ho scelto di lavorare non c’è da distribuire dividendi, ma intellettuali e amministratori che hanno inciso sulla vita di istituzioni culturali con idee ambiziose. Senza progetti di conoscenza di valore, l’efficienza è un totem triste da idolatrare.
Lei proviene dal mondo dell’economia con analisi degli investimenti culturali. Alla luce delle sue conoscenze, applica particolari prospettive?
Il mondo della consulenza ha molti limiti in questo ambito, perché sconta una genericità imperdonabile di approcci, ma ha il pregio di imporre un certo modo di lavorare, integrando in modo razionale i contributi di vari professionisti necessari a concludere i processi organizzativi nel minor tempo possibile e amplificando il risultato. Il problema è intendersi su cosa sia il risultato atteso e quali siano i costi comprimibili. Per quanto mi riguarda sono contrario al lavoro volontario nelle istituzioni culturali (se non per poche e brevissime motivate eccezioni), sono contrario al precariato e sono contrario all’idea che questo settore, che tutti a parole dichiarano strategico per il paese, debba imporre condizioni di lavoro mediocri con la consolazione di lavorare ‘per la bellezza’ o altre astrusità del genere.
Quali nuove strategie digitali assocerete al museo?
Il Museo Galileo è stato il primo museo italiano a dotarsi di un laboratorio multimediale negli anni ottanta e poi ad aprire il primo sito web. Oggi di siti web ne gestiamo oltre centotrenta, con 64 server, 3 nodi di calcolo e una squadra unica a livello internazionale, capace di ideare progetti di conoscenza ambiziosi che richiedono altissime competenze scientifiche ed informatiche (solo così si spiega perché la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti abbia collaborato con il Museo Galileo per la edizione digitale del planisfero di Martin Waldseemüller, uno dei suoi documenti cartografici più importanti). La strategia è quella di piegare gli strumenti informatici alle idee dei curatori, non viceversa.
Lei ricopre anche la carica di presidente del Festival dei Popoli, Istituto per il film di documentazione sociale, prezioso per Firenze e per l’Italia in un’epoca in cui il cinema è sempre più sacrificato. Come affronta la gestione di due ambiti così diversi?
Svolgo l’incarico di Presidente del Festival a titolo gratuito con l’auspicio di poter dare il mio piccolo contributo ad una iniziativa importante ma fragile. Si tratta di due ambiti diversi, è vero, ma entrambi (il cinema documentario e la storia della scienza) condividono un proposito, forse difficile da scorgere, ma che si intravede: costringono ad un confronto con la realtà, che sia di oggetti (e strumenti scientifici in particolare, che hanno una funzione) in un museo o di brani di vita raccontati da un autore o autrice. Mi permetto una precisazione: non è il settore cinematografico ad essere poco finanziato ma proprio quello di ricerca e che opera in regime di ‘fallimento di mercato’, dove il sostegno dello Stato dovrebbe essere maggiore.

Cosa si augura per il futuro del Museo Galileo?
Cento anni fa nasceva, nel maggio del 1925, l’Istituto di Storia delle Scienze (oggi Museo Galileo), per iniziativa di Andrea Corsini. Racconteremo questo secolo di vita in una mostra che aprirà a giugno di quest’anno nella nostra sede. In una lettera indirizzata all’allora Rettore dell’Università di Firenze, Corsini scriveva che l’obiettivo era realizzare il “più bel museo del mondo”. Noi tutti siamo impegnati a mantenere quella promessa, sviluppando originali progetti di conoscenza (edizioni digitali, teche, pubblicazioni, nuovi percorsi/allestimenti/exhibit/ nel museo), facendo ricerca e traducendo questi sforzi in proposte adatte a un vasto pubblico. Mi auguro che questo istituto mantenga, aggiornandola, questa fisionomia che lo rende davvero unico nel panorama internazionale.